Rubriche : romanzo rossonero

Poveri ma belli

martedì, 30 aprile 2019, 11:54

di alessandro lazzarini

Il calcio è una cosa semplice, ma Allegri, molti suoi colleghi allenatori e calciatori, i giornalisti e gli opinionisti non c'hanno capito nulla. Se così non fosse non starebbero a parlarne in televisione con l'arroganza e la protervia di statisti che discutono del destino del mondo o a riempire pagine di giornale con toni non dissimili da quelli proposti da chi affronta con serietà le miserie dell'umanità. 

Il fatto è che gli addetti ai lavori, e purtroppo anche troppa gente, si sono convinti che il gioco del pallone siano quei ventidue ragazzi che rincorrono il pallone in mezzo al campo, gli allenatori, i dirigenti e i fatturati delle società. Quella però è l'industria dello spettacolo costruita sul calcio, che in realtà è solo e soltanto l'irrazionale passione che muove i sentimenti e le emozioni di milioni di persone. Il calcio sono i cinquecento tifosi della Lucchese Libertas pressoché fallita e ultima in classifica che la seguono a Chiavari, l'anziano tifoso che non riesce a camminare ma sorretto da due coetanei con la maglietta rossonera scala le gradinate per vedere la sua squadra abbandonata a se stessa, il bambino inconsapevole in braccio al padre che sente i cori e guarda le bandiere, sventolandone una piccola come lui dietro la porta. Il calcio poi è quella magia inspiegabile per cui migliaia di tifosi di riconoscono e sentono rappresentati da una maglia spesso indossata da ragazzi di passaggio, ma soprattutto è i tanti discorsi, i pettegolezzi, le dietrologie, i pettegolezzi e le chiacchiere che si possono montare sopra una partita, un episodio, la dichiarazione di uno dei protagonisti. Senza tutto questo contorno emozionale che si chiama costume, non sarebbe certo possibile diventare milionari senza alcuna qualifica professionale solo prendendo a calci una sfera o dicendo come corrergli dietro, pubblicare libri con la terza media e vedere migliaia di gonzi che non hanno mai sfogliato nemmeno un romanzo di Liala fare la fila in libreria per acquistarli e così via. In buona sostanza se il calcio non fosse soprattutto un fenomeno sociale, ma fosse quella scienza o quella cosa seria di cui parlano i protagonisti e gli opinionisti, non sarebbe mai stato possibile costruirci un business miliardario attorno, perché se lo trasformiamo in un gioco razionale che si limita ai fatti di campo ne avremmo immediatamente un hobby che, anche ai massimi livelli, potrebbe essere giusto un passatempo da praticare dopolavoro.

Non stiamo certo con questo dicendo che intorno al pallone non debba esistere un contorno professionale o commerciale, vogliamo bensì soltanto nel nostro piccolo limitarci a rilevare come i soldi siano capaci di corrompere tutto e di conseguenza come il calcio trasformato in industria rischi di corrodere se stesso. Ciò che ha in mente questa gente è un grande magazzino dove il ruolo del tifoso è quello del consumatore che non deve assolutamente partecipare allo spettacolo. "Vincere è l'unica cosa che conta" significa "il profitto è l'unico fine" e questa filosofia materialista sommata all'irrazionalità ancestrale del tifoso, che nasce come fenomeno sociale aggregativo di riconoscimento, è una miscela esplosiva che genera solo rabbia, perché tutto ciò che non è utile è per forza perdita, quindi fallimento, così mentre i tifosi del ricco Napoli da Coppa dei Campioni rispedivano delusi per protesta in campo la maglia di Callejon, quelli dell'ultima in classifica del girone A della Lega Pro osannavano i propri ragazzi appena dopo aver fallito una vittoria che poteva essere fondamentale per la salvezza in campionato. Appena un girone fa, quando quello che sarebbe poi successo era forse nell'aria ma la società rossonera esisteva ancora, i tifosi contestavano blandamente la squadra dopo essersi fatta raggiungere a Pontedera: è un fatto invece che oggi la Lucchese, svuotata di ogni aspetto economico e per questo ricondotta necessariamente a sodalizio di romantici, ha trovato una armonia e un legame con l'ambiente forse unico e irripetibile, proprio in quello che forse è l'anno più triste, grottesco e umiliante (a livello dirigenziale) della sua storia.

Il calcio che vogliono i padroni del vapore, cioè i 'manager', è quello degli stadi inglesi dove non si può stare in piedi, dei cento euro per vedere la partita in templi supermercati con la macarena fra un gol e l'altro, quello in cui al bambino in braccio al padre che sventola la bandierina di trenta centimetri da un buco della recinzione si avvicinano gli inservienti dello stadio, chiamati stewards perché la lingua italiana sembra non essere più abbastanza variegata per offrire nomi, intimando di smettere, di tirare fuori la piccola bandierina in nome delle regole, scatenando una rissa perché ancora a volte nell'animo romantico alberga la voglia di ribellarsi al sistema freddo e calcolato che vuole che tutto sia contabilità, burocrazia e regole indiscutibili.

Per carità, non stiamo dicendo che vogliamo per sempre una squadra di romantici senza stipendio, anzi, ridateci al più presto una società seria che versi gli emolumenti ai propri dipendenti, ma quello che sta succedendo a Lucca e succede anche in molte altre piazze dovrebbe forse essere di lezione a quei soggetti che guidano la nave del pallone verso una realtà in cui hanno senso di esistere solo multinazionali globali e si giustifica una sconfitta invocando la ragione del maggior fatturato dell'avversario.

Il calcio è colore ed è necessario non prenderlo troppo sul serio per farlo sopravvivere ai suoi dirigenti. E' per questo che ora ci vediamo costretti a chiedere alle nostre pantere, a questo punto sfinite, l'ennesimo sforzo in vista di una missione importantissima: evitare di sorbirsi gli avversari di turno in sala stampa, finti dispiaciuti davanti ai cronisti, per aver fatto retrocedere sul campo i rossoneri.



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