Mondo Pantera
sabato, 31 maggio 2025, 13:32
Da Emanuele Pacini riceviamo e volentieri pubblichiamo un appello di un tifoso al Gruppo Sofidel e più in generale a tutto il tessuto imprenditoriale lucchese sino sordo a qualunque segnale di aiuto per salvare la Lucchese.
Gentile Presidente Paola Stefani,
ci sono cose che si vedono solo stando in silenzio la domenica pomeriggio, in curva. Guardando le facce delle persone. Non i cori, non i fumogeni, ma le espressioni vere, nude, a volte commosse.Volti segnati dal lavoro, dalla fatica, dalla settimana piena. Uomini e donne che si portano dietro ferite e preoccupazioni, ma che per novanta minuti respirano. E lo fanno insieme.
Non è retorica. È sopravvivenza emotiva. In un tempo in cui tutto è individualismo, disgregazione, solitudine travestita da connessione virtuale, lo stadio è uno dei pochissimi luoghi rimasti dove la gente si guarda ancora negli occhi. Dove ci si abbraccia senza conoscersi, ci si stringe anche nelle sconfitte, si canta insieme anche quando tutto va storto.
Salvare la Lucchese non è un'operazione sportiva. È un’operazione sociale, culturale, umana.
È proteggere un baluardo di identità collettiva, che tiene insieme intere generazioni.
C’è un ragazzo che viene con il padre. C’è un nonno che racconta al nipote com’era il Porta Elisa quarant’anni fa. C’è un operaio che ha rinunciato a una pizza con la famiglia per potersi permettere il biglietto. C’è una città che, per un attimo, si dimentica le divisioni, le differenze, le disuguaglianze.
E tutto questo accade intorno a una squadra, sì. Ma soprattutto intorno a un simbolo. Perché non è solo una palla che rotola su un campo.
È un rito collettivo. È una memoria che cammina, che cresce, che educa.
Chi pensa che il calcio sia solo “22 uomini che rincorrono un pallone” non ha mai capito cosa succede veramente dentro e fuori da uno stadio.
Non ha mai sentito il silenzio dopo un gol subito, che unisce più di mille parole.
Non ha mai visto un padre che piange accanto al figlio, senza vergogna, perché quella maglia rossonera gli ricorda il proprio padre, la propria infanzia, un tempo in cui credeva ancora che le cose potessero cambiare.
Noi non abbiamo yacht. Non abbiamo Suv, né case con vista mare. Abbiamo sogni più piccoli, forse più poveri, ma maledettamente reali.Vogliamo credere in qualcosa. Abbiamo bisogno di crederci. Perché se si spegne anche questo, ci resta solo l’indifferenza. E un popolo senza identità, senza passione, senza memoria condivisa, è un popolo che non respira più. È un corpo sociale che marcisce lentamente.
Il fallimento della Lucchese è il fallimento di un tessuto sociale. Un altro pezzo della nostra storia che si sgretola.Un altro luogo di aggregazione che muore.E non stiamo parlando di soldi. Non chiediamo elemosine. Chiediamo visione. Coraggio. Responsabilità. C’è chi ha i mezzi per scegliere. E chi, come noi, può solo sperare. Sperare che chi può fare la differenza, la faccia.
Un’azienda come Sofidel, che si muove in territori e li abita con la propria presenza industriale, ha una responsabilità che va oltre i numeri di bilancio.
Una responsabilità verso chi in quei territori vive, lavora, cresce i figli, manda avanti una famiglia, spesso senza aiuti. La Lucchese non è una spesa. È un investimento nella dignità della città che l’ha vista nascere e crescere.
Se cade la Lucchese, non cade solo una squadra. Cade un presidio umano Un luogo dove si impara il rispetto, la lealtà, la lotta, il valore della maglia, del gruppo, della sconfitta e della vittoria. Tutti valori che servono ogni santo giorno anche nel campo della vita.
Non chiediamo miracoli. Ma un gesto. Un segnale. Un’assunzione di responsabilità sociale.
Perché chi ha ricevuto tanto da questo territorio, può e forse deve, restituire un pezzetto di speranza a chi ogni giorno si rialza senza aiuti. Perché siamo tutti esseri umani. E quando si spengono anche i piccoli sogni, resta solo il silenzio.
Con rispetto e verità, Emanuele Pacini
Nipote, figlio, padre, operaio e Lucchese, come tanti.
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